Un anno di diaconato tra le mura del carcere e il quotidiano
«È troppo poco» (Is 49,6). Con queste parole il profeta ricorda che la missione non si esaurisce nel minimo indispensabile: Dio chiama a qualcosa di più grande, a uscire dalla mediocrità. Un anno fa, il vescovo Mario ci consegnava lo stesso invito: «Ecco come Gesù si manifesta re dell’universo: salva tutti, ma uno per uno. Ciascuno è unico e per ciascuno è pronunciata la parola: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). Oggi, dopo dodici mesi di ministero, posso dire che questa frase è diventata la chiave di lettura della mia esperienza, vissuta in gran parte tra le mura di un carcere.
Il diaconato è servizio, non titolo. È uscire dalla mediocrità, come ci invitava il vescovo, e lasciare il “troppo poco” dell’accontentarsi. In carcere questo significa non fermarsi alle apparenze, non ridurre le persone ai loro errori, ma riconoscere in ciascuno un figlio di Dio. Ogni incontro è una sfida a credere che la misericordia è più forte della colpa.
Entrare in carcere è come varcare una soglia che separa due mondi. Dentro ci sono storie ferite, rabbia, solitudine, ma anche desiderio di riscatto. Il ministero diaconale qui si traduce in ascolto, in presenza silenziosa, in piccoli gesti che parlano di speranza: una parola buona, una preghiera condivisa, un sorriso che rompe il gelo. Ho imparato che il Vangelo non si annuncia solo con le omelie, ma con la capacità di stare accanto.
La Chiesa italiana, attraverso la pastorale carceraria, è presente in quasi tutti gli istituti penitenziari. Cappellani, volontari e operatori lavorano per offrire sostegno spirituale e umano, promuovendo percorsi di reinserimento e riconciliazione. È un servizio che richiede pazienza e coraggio, perché si svolge in un contesto segnato da fragilità e ferite profonde. Essere diacono in questo ambito significa condividere la missione della Chiesa che non abbandona nessuno, nemmeno chi ha sbagliato.
Non posso raccontare dettagli, ma posso dire che ho visto occhi riaccendersi, mani tremanti stringere un rosario, uomini che chiedono di essere perdonati. In quei momenti ho compreso la forza della frase di Gesù al ladrone: «Oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). Non è una promessa lontana, è un presente che si apre quando qualcuno si sente amato.
La missione non è mai di massa: è personale. Uno per uno. In carcere questo è evidente: ogni volto è unico, ogni storia è irripetibile. E ogni volta che mi sono seduto accanto a un detenuto, ho sentito che il Signore mi chiedeva di essere segno della sua vicinanza. Non sempre ho avuto le parole giuste, ma ho imparato che spesso basta esserci.
Oggi, dopo dodici mesi, il mio cuore è pieno di gratitudine. Ringrazio il Signore per avermi condotto in questa periferia esistenziale, dove il Vangelo è vivo e concreto. Il diaconato non è un traguardo, ma un cammino che continua. E se posso lasciare un messaggio alla comunità, è questo: non abbiate paura di varcare le soglie scomode. Lì, dove sembra esserci solo buio, la luce di Cristo brilla più forte.
Emiliano Gioffredi